Il sistema penal-processuale americano: metodi e tecniche a confronto con quello italiano

1 Il sistema penal-processuale americano: metodi e tecniche a confronto con quello italiano

Bari, 11 Giugno 2013 – L’Associazione Culturale “Gens Nova” in collaborazione con le Associazioni I.P.A. (International Police Association) rappresentata dal Capitano Francesca Perchiazzi della Polizia Locale di Bari, Responsabile Comitato Locale BA01 ed A.N.F.I. (Associazione Nazionale Finanzieri d’Italia), nella persona del Comm. Antonio Fiore, Consigliere Nazionale per la Puglia e Basilicata nonché Presidente della Sezione A.N.F.I. di Bari, ha organizzato l’incontro-dibattito dal tema: “IL SISTEMA PENAL-PROCESSUALE AMERICANO: METODI E TECNICHE A CONFRONTO CON QUELLO ITALIANO”.
Interventi di saluto: Dott. Francesco Schittulli, Presidente della Provincia di Bari.
Interventi di relazione: Dott. Timothy De Giusti, Giudice della Corte Suprema Stati Uniti d’America.
Ha moderato: Prof. Avv. Antonio Maria La Scala, Avvocato penalista del Foro di Bari e Presidente Nazionale Associazione Gens Nova.
L’interessante incontro-dibattito svoltosi nella bellissima Sala Consiliare della Provincia, ha avuto inizio con una breve introduzione del Dott. Francesco Schittulli, Presidente della Provincia di Bari, che prima dell’incontro ha ricevuto nel suo ufficio il Dott. De Giusti e l’Avv. La Scala e nell’occasione ha donato al magistrato americano un libro sulle bellezze della Provincia di Bari.
Subito dopo l’Avv. Antonio Maria La Scala, ha illustrato i tratti del sistema penal-processuale americano, passando poi la parola al Dott. Timothy De Giusti il quale ha invece relazionato ampiamente su alcuni degli specifici istituti penal-processuali americani.
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Al termine della sua interessante relazione, seguita con particolare attenzione dall’intera platea, è iniziato un ampio dibattito dove prima l’Avv. Maria Clara Donato, che ha ricevuto i complimenti direttamente dal giudice per i quesiti proposti e per l’elevata preparazione dimostrata nella circostanza, e successivamente i partecipanti hanno rivolto numerosissime domande al magistrato americano. Grande la soddisfazione espressa dall’illustre relatore, per il notevole interessamento dimostrato dalle tantissime persone presenti in sala.
I temi maggiormente affrontati e di particolare interesse sono stati: l’istituto giuridico della prescrizione; della cross-examination; le indagini difensive; la validità della prova scientifica; l’istituto dell’agente sotto copertura e l’articolazione del processo penale americano.
Sappiamo che la prescrizione determina l’estinzione del reato sul presupposto del trascorrere di un determinato periodo di tempo (ad eccezione dei reati per i quali è prevista la pena dell’ergastolo che sono imprescrittibili). La prescrizione estingue il reato decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro anni se i tratta di contravvenzione, ancorché puniti con la sola pena pecuniaria. Per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per il reato consumato o tentato, senza tener conto della diminuzione per le circostanze attenuanti e dell’aumento per le circostanze aggravanti, salvo che per le aggravanti per le quali stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria e per quelle ad effetto speciale, nel qual caso si tiene conto dell’aumento massimo di pena previsto per l’aggravante.
La Corte Costituzionale con sentenza 31.05.1990, n. 275 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 157 c.p., nella parte in cui non prevede che l’imputato possa rinunziare alla prescrizione del reato. La prescrizione può essere oggetto di sospensione (nel caso il termine ricomincia a decorrere dal momento della sospensione) o interruzione (nel caso il termine ricomincia a decorrere nuovamente dal momento dell’interruzione. Anche in caso di sospensione o interruzione, sono comunque previsti termini oltre i quali la prescrizione opera comunque (art. 161 c.p.).
A differenza di quanto accade in Italia, il termine di prescrizione decorre dalla data di scoperta del fatto reato e non dalla sua commissione, e questo fa si che ovviamente rispetto alla realtà del procedimento penale del nostro Paese, sono pochi di fatto i processi che si prescrivono negli Stati Uniti. E’ emerso inoltre una importante circostanza sul fatto che il procedimento penale americano si conclude in settanta giorni, escluso il periodo previsto per la formalizzazione della sentenza.
Successivamente si è passati ad esaminare l’istituto della cross-examination, ossia quella che da noi costituisce il cuore del processo penale in quanto accusa e difesa si trovano sullo stesso piano nella fase dibattimentale. Attraverso tale esame, si forma la prova come ben noto a tutti. La cross-examination, l’esame incrociato, rappresenta uno dei momenti più delicati durante il processo penale.
Si tratta, sostanzialmente, dell’esame testimoniale. Il testimone, in Italia, può essere sottoposto a: esame diretto, controesame, riesame, esame da parte del Giudice. Ovviamente dopo il Riesame, la controparte può chiedere il Controesame e così via.
La Cross-Examination è quindi una fase delicatissima e molto complessa. Mette a dura a prova il testimone e potrebbe determinare e in un senso o in un altro il parere del Giudice. Per effettuare un buon esame del testimone serve esperienza, ma anche a abilità nel saper porre le domande, quando incalzare, quando essere più morbidi, quando effettuare domande chiuse, aperte eccetera.
L’esame da parte del Giudice avviene nel momento in cui si presentano ancora alcune lacune nel racconto del testimone, nonostante si siano svolte le fasi di Esame, Controesame, Riesame.
Nel corso dell’incontro inoltre, particolare attenzione è stata posta all’importante strumento delle indagini difensive che anche in Italia sono operative dall’anno 2000 con l’introduzione degli articoli 391 bis e seguenti del codice di procedura penale.
Il processo adversary, caratteristico dell'ordinamento statunitense, vede nelle investigazioni difensive un momento fondamentale per il suo corretto funzionamento, basato sui seguenti punti: 1) iniziativa delle parti nella ricerca, individuazione e presentazione dei mezzi di prova; 2) formazione delle prove nel contraddittorio delle parti in un giudizio pubblico dinanzi alla giuria.
Il fenomeno della giustizia negoziata, ampiamente più sviluppato che non in Italia, richiede un tempestivo prodigarsi del difensore alla ricerca di elementi di prova attraverso i quali formulare un giudizio prognostico sugli esiti del procedimento, sì da poter orientare meglio le proprie scelte e negoziare con l'avversario con cognizione di causa. Significativa dell'importanza attribuita alle indagini difensive è la normativa sulla difesa del non abbiente che prevede, tra i servizi che lo stato si accolla, anche gli investigative services.
In un tale quadro risulta pleonastico osservare come le indagini del difensore siano, piuttosto che una facoltà, un dovere.
L'American Bar Association (A.B.A.) ha statuito degli standards relativi alla funzione difensiva, secondo i quali, appunto, è dovere dell'avvocato difensore condurre una tempestiva investigation.
Con quasi 400.000 membri, l'American Bar Association è una delle più grandi organizzazioni di volontariato di appartenenza professionale nel mondo. Come la voce nazionale della professione forense, la ABA lavora per migliorare l'amministrazione della giustizia, promuove programmi che aiutano gli avvocati e giudici nel loro lavoro, accredita le scuole di diritto, fornisce formazione continua legale, e lavora per costruire la comprensione del pubblico di tutto il mondo circa l’importanza dello Stato di diritto in una società democratica.
Le specializzazioni dell’A.B.A. sono: legislazione, servizi legali, educazione, pubblicazione e sviluppo professionale.
Le indicazioni fornite, sebbene promananti da un'istituzione privata, costituiscono il parametro di giudizio della condotta dell'avvocato sia nel caso di procedimento disciplinare che di impugnazione per ineffective assistance, vale a dire le due possibili sanzioni comminabili.
Ad onor del vero il procedimento disciplinare non trova una grande applicazione, stante la tendenza dei giudici a "punire" solo sul piano processuale gli avvocati negligenti.
Per quel che concerne l'impugnazione del cliente per ineffective assistance si verifica la stessa scarsa applicazione, in quanto trattasi di mezzo di impugnazione difficilmente sostenibile e straordinario (collateral attack), quindi esperibile solo una volta ultimati i mezzi ordinari.
Problemi di effettività del diritto di difesa, in misura minore, caratterizzano anche questo sistema.
Le indagini difensive oltre a configurarsi come un dovere del difensore, si devono ritenere un diritto del sottoposto a procedimento.
Un diritto di rango costituzionale che trova il suo fondamento non solo nella clausola del due process of law, ma anche in due garanzie più specifiche: 1) il diritto dell'imputato a confrontarsi con i testi dell'accusa e sottoporli a cross-examination; 2) il diritto a produrre testimoni a discarico.
Senza le indagini difensive un simile dettato costituzionale sarebbe lettera morta.
Al di là del dato positivo secondo cui le indagini sono un dovere del difensore ed un diritto dell'assistito, non è prevista una disciplina analitica né a livello legislativo, né delle rules of courts, né delle regole deontologiche e neppure degli standards dell'ABA. Tali fonti dopo aver fissato i limiti esterni all'operatività del difensore, lasciano che sia la prassi, determinata dalla struttura adversary del processo, a fissarne in concreto l'estensione.
E’ stato affrontato altresì il delicato tema riguardante la validità della prova scientifica.
E’ noto che il giudice, nello svolgimento della sua attività, deve spesso ricostruire un fatto del passato. Può avvenire che questa ricostruzione venga fatta con gli strumenti di ricerca che appartengono allo storico (documenti, testimonianze ecc.) oppure con strumenti che appartengono allo scienziato, cioè con quella che chiamiamo prova scientifica.
Lo sviluppo di quest’ultimo tipo di prova negli ultimi decenni ha avuto conseguenze rivoluzionarie anche sulle tecniche d’indagine e sul processo consentendo di pervenire, almeno in alcuni settori e non solo nel nostro ordinamento a risultati in precedenza inimmaginabili: si pensi alle possibilità investigative e probatorie che consentono oggi le tecniche di ricerca della compatibilità genetica e l’uso della prova informatica.
L’espressione “prova scientifica” designa quindi un fenomeno complesso, che si estrinseca in una molteplicità di forme e si articola in una serie di operazioni probatorie per le quali, nei momenti dell’ammissione, dell’assunzione e della valutazione, si usano strumenti di conoscenza attinti dalla scienza e dalla tecnica. Scienza e processo si trovano dunque in un rapporto di reciproca integrazione sempre più feconda: da un lato, con l’evoluzione tecnologica il rito penale si apre sempre di più all’ingresso della scienza; dall’altro, si assiste ad una sorta di “processualizzazione del metodo scientifico”, che passa attraverso il contraddittorio tra gli esperti e il vaglio giudiziale delle prospettazioni scientifiche introdotte nel processo.
Oggi il tema della valutazione della prova scientifica – sia che costituisca la prova diretta del fatto da provare (per es. l'esame del DNA su un reperto biologico per verificare la corrispondenza con il codice genetico di una persona) sia che si tratti di prova idonea a fornire al giudice gli elementi per la ricostruzione del medesimo fatto (per es. la prova balistica diretta a ricostruire l'accadimento) - si pone dunque sotto il duplice profilo della valutazione della prova atipica e della valutazione delle prove tradizionali (in particolare perizia e consulenza tecnica) nelle quali siano stati utilizzati metodi di ricerca di natura scientifica.
Ma il tema della valutazione della prova scientifica ha spesso caratteristiche proprie di maggior difficoltà rispetto alla valutazione di altre prove perché mentre gli strumenti culturali a disposizione del giudice per la valutazione di prove diverse sono (o dovrebbero essere) patrimonio di tutti i giudici, e ciascuno di essi dovrebbe averne di adeguati per assolvere il difficile compito di valutare la prova, ciò non avviene per la prova scientifica perché il giudice non è normalmente dotato delle necessarie conoscenze e conseguentemente non può, nella maggior parte dei casi, valutarla senza la mediazione dell'esperto.
Anzi, se il giudice fosse in grado di farlo perché dotato di competenze specialistiche, ciò comporterebbe, quando si tratti di fatti complessi, un altro tipo di problemi in relazione all’esercizio del diritto delle parti al contradditorio che dovrebbe essere esercitato, in modo anomalo, non nei confronti di un esperto ma del medesimo giudice.
Le difficoltà che si incontrano nella valutazione delle altre prove si accentuano notevolmente nel caso della valutazione della prova scientifica i cui risultati, dunque, il giudice deve essere attrezzato a valutare eventualmente disattendendoli – non essendo attribuito alla prova scientifica alcun valore di prova legale – ma essendo obbligato in ogni caso ad un rigoroso esame critico delle conoscenze di natura scientifica entrate a far parte nel processo.
Può sembrare un'ovvietà l’affermazione che certi fatti possono essere provati solo con l'ausilio di esperti del settore specifico. In realtà esiste, in ampi settori dell'esperienza giudiziaria, una zona di confine nella quale il limite tra sentire comune, massime di esperienza generalmente riconosciute e fatti notori da un lato; cognizioni o metodi scientifici dall'altro non è ben delineato.
Solo quando il limite tra i due settori viene superato sorge l'obbligo per il giudice di avvalersi dell'opera dell'esperto; diversamente il giudice procede direttamente ai necessari accertamenti. Ciò si verifica frequentemente nel processo civile (si pensi alle cause di interdizione che spesso vengono decise senza la nomina del consulente) ma questo modo di operare non è estraneo al processo penale tutte le volte che l'accadimento sia ritenuto di facile ricostruzione (per es. un automobilista investe un pedone che muore all’istante).
Il problema centrale risiede allora nella risposta alla domanda: sino a che punto il fatto reato può essere provato oltre il ragionevole dubbio con l’ausilio della scienza e della tecnica?
A tale domanda se ne ricollega, poi, una seconda: sulla base di quali parametri il giudice deve valutare l’affidabilità e la valenza epistemica di una prova scientifica?
Come è noto, il codice non indica al giudice il criterio per valutare in positivo o in negativo la scientificità di un metodo o di una teoria che vengano presentati come scientifici.
Spetta dunque all’interprete tentare di enucleare dal panorama giuridico ed epistemologico sulla materia indicazioni utili al riguardo.
E’, in primo luogo, necessario che sia verificata l’astratta idoneità della prova scientifica a fondare, nel caso specifico, un accertamento processualmente valido. E’ banale l’affermazione della inutilità dell’utilizzazione della prova scientifica più sofisticata se non è comunque in grado di fornire un’informazione necessaria, o almeno utile, in quel processo.
Il criterio della idoneità probatoria – che ovviamente prescinde totalmente dall’ipotizzabile risultato della prova - è, tra l'altro, ribadito esplicitamente, per la prova atipica, dall'art. 189 c.p.p. (che parla di prova “idonea ad assicurare l'accertamento dei fatti”); ma non può esservi dubbio che l'esistenza di questo presupposto sia implicito anche nel caso di prove tipiche.
Si può quindi pervenire alla conclusione che l'inammissibilità della prova, perché fondata su criteri scientifici non attendibili, costituisce una regola di esclusione e non di valutazione della prova: il giudice (sia pure con un giudizio rivedibile e non definitivo) neppure deve ammettere la prova che sia fondata su un metodo scientifico inaffidabile.
E se la prova è stata erroneamente ammessa il giudice non la può utilizzare per la decisione trattandosi di prova acquisita in violazione di un divieto stabilito dalla legge (art. 191 comma 1° c.p.p.).
E' necessario precisare che il giudizio sulla validità della prova o metodo scientifico non può essere delegato al perito (o al consulente tecnico) non solo perché questi, nella più parte dei casi, tenderà a sopravvalutare la validità del metodo nel quale è esperto ma perché la valutazione sull'attendibilità scientifica della prova – riguardando la sua ammissibilità e rilevanza - è compito esclusivo del giudice che lo eserciterà nel contradditorio delle parti avvalendosi, ovviamente, anche delle informazioni fornitegli dall'esperto (o dagli esperti nominati dalle parti) ma non limitandosi ad esse soprattutto nel caso di contestazione della validità.
Un altro indefettibile requisito è quello della diffusa accettazione in seno alla comunità scientifica internazionale. 150
La mancanza di accettazione da parte della generalità della comunità scientifica della validazione di un’ipotesi significa infatti incertezza scientifica. E da tale incertezza non può che conseguire l’assoluzione dell’imputato.
Si noti come, del resto, il criterio in disamina era stato accolto dalla giurisprudenza nordamericana fin dal 1923, con la sentenza Frye, secondo la quale una prova scientifica poteva essere ammessa soltanto in quanto fondata su un principio o una scoperta sufficientemente stabile, sì da aver ricevuto generale accettazione nell’ambito di ricerca al quale attiene.
La necessità del requisito del consenso della comunità scientifica è stata sottolineata dalla Corte di cassazione in una sentenza (relativa alla nota problematica del Petrolchimico di Porto Marghera), con la quale è stata ritenuta corretta la motivazione della sentenza di merito che aveva escluso la possibilità di affermare il nesso di causalità generale tra l’esposizione a cloruro di vinile e talune malattie, sottolineando la contraddittorietà dei dati e l’inesistenza di un riconoscimento condiviso, se non generalizzato, della comunità scientifica sull’argomento.
Una importante elaborazione giurisprudenziale della tematica inerente all’individuazione dei criteri sulla base dei quali valutare l’affidabilità del sapere scientifico che viene introdotto nel processo, proviene da una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti (sentenza 28 giugno 1993, pronunziata nel caso Daubert v. Merrel Dow Pharmaceuticals Inc.), che costituisce, nella giurisprudenza d’oltre oceano, una pietra angolare nel dibattito in materia. Pur essendo stata emessa in un giudizio civile e nel contesto di un sistema di common law, dalle caratteristiche notevolmente diverse da quelle del nostro ordinamento, dall’iter argomentativo e dalle conclusioni cui è pervenuta la pronuncia è possibile trarre alcune preziose indicazioni di portata generale e perciò valide anche per il nostro sistema giuridico. Alla Corte statunitense era stato sottoposto il problema degli effetti teratogeni di un farmaco antinausea, il Bendectin, in relazione al quale erano stati promossi diversi giudizi civili, tutti conclusisi con sentenze che negavano l’effetto teratogeno. I ricorrenti, minori nati con gravi malformazioni, avevano avviato un’azione civile di fronte alla Corte dello Stato della California, nei confronti dell’impresa che aveva prodotto e commercializzato il predetto farmaco, sostenendo che le malformazioni erano state cagionate dall’assunzione di esso da parte della madre. 151
La Corte distrettuale aveva dato torto ai ricorrenti. La sentenza Daubert indica dunque i seguenti criteri di affidabilità delle teorie scientifiche: 1) il primo carattere che la conoscenza scientifica deve possedere è quello della verificabilità: una teoria è scientifica se può essere controllata mediante esperimenti; 2) il secondo criterio richiede che la teoria scientifica sia sottoposta a tentativi di falsificazione, i quali, se hanno esito negativo, la confermano nella sua credibilità; 3) occorre che al giudice sia resa nota, per ogni metodo proposto, la percentuale di errore accertato o potenziale che questo comporta.
La conclusione è quindi, che, anche quando esiste una legge scientifica astrattamente idonea a spiegare un fenomeno, non per questo le conoscenze che lo riguardano devono essere ritenute definitive e immutabili. Ciò ha un rilievo importante nel processo penale perché, per esempio, la ricerca sull'esistenza del rapporto di causalità – che va fatta con criteri di valutazione ex post (a differenza dei criteri per la valutazione della prevedibilità riguardanti l'elemento soggettivo) – dovrà utilizzare anche i risultati delle ricerche scientifiche non conosciuti al momento in cui si è verificato l'evento o è stata posta in essere la condotta.
Il tutto, si complica, però, allorquando si tratta di utilizzare diverse leggi scientifiche che interferiscono tra di loro e che rendono più complessa la ricostruzione del fatto. Per esempio in materia balistica per poter accertare l'esatto svolgimento di un fatto complesso (si pensi alla traiettoria di un proiettile, alla posizione di chi ha sparato e di chi è stato attinto dal proiettile) occorre prendere in considerazione non solo le leggi scientifiche che riguardano le deviazioni impresse ai proiettili dall'impatto con materie e corpi solidi ma altresì quelle che riguardano la consistenza e l'idoneità di questi corpi a deviare il colpo, la potenza dell'arma, la distanza e la posizione delle persone coinvolte.
E le medesime difficoltà si incontrano nel ricostruire tutta una serie di eventi spesso oggetto di indagini giudiziarie (frane, esondazioni, naufragi ecc. ma anche decessi in persone affette da patologie plurime).
In conclusione, un giudice informato sui presupposti di validità del metodo o prova scientifici utilizzati nel processo, deve essere pronto ad esaminare contrapposte visioni scientifiche e a scegliere quella più convincente non in base ad una opzione pregiudiziale e immotivata ma, dopo aver dato il più ampio spazio al contradditorio, quella fondata su una dimostrata competenza scientifica e su argomentazioni che non abbiano trovato obiezioni insuperabili tenendo anche conto, e non marginalmente, delle eventuali evidenze probatorie atte a confermare o smentire il giudizio dell’esperto.
Perché, al fine, è questo che si richiede al giudice: che dia coerentemente e logicamente conto della scelta operata senza appiattirsi sulle conclusioni dell’esperto quasi si trattasse di una prova legale.
Compito che, nei casi in cui interferiscano sulla soluzione problemi di natura scientifica, assume caratteristiche di particolare difficoltà ma è tuttavia ineludibile quando si abbia a che fare con la vita, la libertà e i beni delle persone.
Altra tematica di rilievo, particolarmente delicata, rischiosa e complessa su diverse questioni, ha riguardato l’istituto dell’agente sotto copertura soprattutto trattando l’aspetto sotto il profilo della responsabilità circa la commissione di un eventuale reato durante lo svolgimento della medesima attività.
L’agente infiltrato indica una tecnica di indagine, per cui un appartenente alle forze di polizia simulando un’identità diversa, quindi con particolari attitudini, è in grado di operare in ambienti criminali ed acquisire informazioni che tradotti in una sua relazione possono rappresentare una fonte di prova importante.
In altri termini, con questa espressione si può indicare un’attività che non necessariamente necessità anche di una specifica “copertura normativa” sino a quando non si renda necessario omettere atti (come quelli di sequestro o arresto) che lo status di agente o ufficiale di polizia giudiziaria imporrebbe di compiere.
In questo articolo si affrontano le diverse ipotesi di operazioni sotto copertura previste nel nostro Ordinamento, anche alla luce delle novità introdotte dalla legge n. 146 del 2006, sul crimine transnazionale.
Si è cercato di individuare le questioni "processuali" più delicate di interpretazione della disciplina normativa, con particolare riferimento all'ambito dell'impunità dell'infiltrato, alla veste processuale che questi va ad assumere ed al contenuto delle dichiarazioni che questi può essere chiamato a rendere.
E’ stato utile soffermare l'attenzione sui problemi interpretativi più delicati, che riguardano la posizione processuale dell'"agente provocatore". Il riferimento è alla "veste" che può e deve assumere, nel procedimento e, poi, nel processo, l'infiltrato nonché al contenuto della sua deposizione nel processo. Problematiche che riguardano anche la posizione della persona interposta e/o dell'ausiliario di cui l'infiltrato si sia avvalso nello svolgimento dell'operazione simulata e del delicato problema dei limiti oggettivi di operatività della scriminante.
In ordine poi alla "testimonianza" dell'”agente provocatore”, se e quanto ammissibile allorquando non si sia proceduto ad iscriverlo sul registro delle notizie di reato, è da ritenere, con la migliore interpretazione giurisprudenziale, che l'”agente provocatore” può rendere testimonianza, nel processo, anche sulle dichiarazioni rese dall'imputato, non valendo in tal caso il disposto dell'articolo 62 del c.p.p. (che vieta, di regola, la testimonianza sulle dichiarazioni rese dall'imputato); infatti, l'”agente provocatore” non agisce nella sua specifica funzione di ufficiale di polizia giudiziaria, con i connessi poteri certificatori ed autoritativi, ma solo come soggetto che partecipa all'azione (sino al limite di una simulata e discriminata compartecipazione al reato).
Ad analoga conclusione deve pervenirsi con riguardo all'ammissibilità della deposizione sul contenuto delle dichiarazioni ricevute, nel corso dell'operazioni, da terzi, diversi dall'imputato. Non osta a tale soluzione il disposto dell'articolo 195, comma 4, del c.p.p., il quale, vietando la testimonianza indiretta degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria sul contenuto delle dichiarazioni di terzi si riferisce alle dichiarazioni acquisite da testimoni con le modalità di cui agli articoli 351 e 357, comma 2, lettere a) e b), del c.p.p.-
In tali dichiarazioni, infatti, rientrano sia le dichiarazioni che siano state assunte e documentate in applicazione di dette norme, sia quelle assunte dalla polizia giudiziaria senza la redazione del relativo verbale, con ciò eludendo proprio le modalità di acquisizione prescritte dalle norme medesime; ma non vi rientrano, certamente, le dichiarazioni che siano state rese da terzi e percepite al di fuori di uno specifico contesto procedimentale di acquisizione, in una situazione operativa eccezionale o di straordinaria urgenza e, quindi, al di fuori di un dialogo tra teste e ufficiale o agente di polizia giudiziaria, ciascuno nella propria qualità.
Quest'ultima ipotesi è quella che qui interessa, per l'assorbente considerazione che l'infiltrato, nel momento in cui viene a conoscere di tali dichiarazioni, oltre a non agire nella sua specifica funzione di ufficiale di polizia giudiziaria, si trova in un contesto spazio-temporale ex se impeditivo della possibilità dell'acquisizione delle dichiarazioni con le forme tipiche della verbalizzazione.
Un’ulteriore riflessione concerne la carenza, nelle diverse discipline normative, di interesse di meccanismi di "assunzione protetta e riservata" della testimonianza dell'agente infiltrato, neppure essendo consentito il ricorso a "generalità di fantasia" nel momento della identificazione del testimone.
Altra considerazione si impone, con riguardo al delicato problema, di immediato rilievo processuale, dei limiti dell'impunità previsti per le attività dell'infiltrato e delle persone interposte chiamate ad ausiliarlo.
E' fin troppo ovvia la considerazione che il confine che non va assolutamente superato è quello delle attività astrattamente illecite che tipicamente (e tassativamente) sono consentite dalle diverse ipotesi normative di operazioni sotto copertura.
Diversamente, l'infiltrato o la persona interposta che le abbia poste in essere ne risponderebbe penalmente. L'unica eccezione potrebbe ravvisarsi se e qualora si ravvisino i presupposti della scriminante dello stato di necessità (articolo 54 del c.p.), ossia se ed in quanto risulti dimostrato che l'infiltrato sia stato costretto alla commissione di tali reati, nell'impossibilità di determinarsi altrimenti (o interrompendo l'attività o, magari, facendo intervenire ab externo il personale di copertura), per non scoprirsi nei confronti degli appartenenti all'associazione, con i conseguenti rischi per la propria incolumità personale.
Tali rischi, unitamente agli altri presupposti della scriminante dello stato di necessità (attualità del pericolo per la propria incolumità personale, inevitabilità del pericolo, proporzione tra il pericolo e il fatto criminoso commesso), sono la condizione imprescindibile per ritenere non punibili le attività criminose, non strumentalmente connesse con l’operazione simulata, che l'operatore fosse stato "costretto" a compiere.
In una tale prospettiva, l'opzione preferibile per l'operante, che si trovasse a dover commettere reati per proseguire nella propria attività e per non scoprirsi, dovrebbe essere quella di "sganciarsi", o interrompendo l'attività di infiltrazione o facendo intervenire il personale di copertura, laddove le risultanze investigative già consentissero di apprezzare un adeguato quadro probatorio a carico degli associati. Solo in estremo subordine, quando la prima opzione non fosse materialmente coltivabile, pena il rischio concreto per l'incolumità, l'operante potrebbe determinarsi a commettere il reato, rispettando però, pur sempre, i richiamati presupposti della scriminante prevista dall'articolo 54 del c.p.-
Negli Stati Uniti non è previsto il risarcimento per ingiusta detenzione che invece in Italia può raggiungere la cifra massima di euro 516.000 (cinquecentosedicimila/00) ed inoltre come da noi non vi è alcuna responsabilità del giudice in caso di eventuali errori derivanti dagli esiti dei processi.
L’evento con ingresso libero e il riconoscimento di crediti formativi, si è svolto presso la Sala Consiliare della Provincia di Bari – Lungomare Nazario Sauro, dalle ore 09:30 alle ore 14:00.