Incontro dibattito su: “Il cammino della legalità dopo le grandi stragi di mafia” e il libro “Chi ha paura muore ogni giorno” di Giuseppe Ayala

1 Incontro dibattito su: “Il cammino della legalità dopo le grandi stragi di mafia” e il libro “Chi ha paura muore ogni giorno” di Giuseppe Ayala

Bari, 03 Aprile 2009 – L’Associazione Culturale “Gens Nova” ha presentato l’incontro-dibattito dal tema: “IL CAMMINO DELLA LEGALITA’ DOPO LE GRANDI STRAGI DI MAFIA” e il libro “CHI HA PAURA MUORE OGNI GIORNO” di Giuseppe Ayala (Mondadori Editore).
Relatori: Dott. Giuseppe Ayala, Magistrato e Pubblico Ministero al maxi processo di “Cosa Nostra” e autore del libro “CHI HA PAURA MUORE OGNI GIORNO” – I miei anni con Falcone e Borsellino; Ing. Salvatore Borsellino, fratello del compianto Giudice Paolo Borsellino.
Introduzione e saluti: Prof. Avv. Antonio Maria La Scala, Avvocato del Foro di Bari e Presidente Nazionale Associazione “Gens Nova”.
Ha moderato la Dott.ssa Stefania Ferrante, Giornalista.
Come tutti sanno sedici anni fa moriva il giudice Paolo Borsellino in quella che nella storia viene ricordata come la strage di via D'Amelio. Con Paolo Borsellino morirono anche gli uomini della sua scorta. Meno di due mesi prima era stato ucciso anche l'amico di sempre Giovanni Falcone e suo fratello Salvatore parla giustamente di Via D’Amelio come strage di Stato perché a tutt’oggi ci si interroga ancora su chi siano stati i mandanti.
La mafia è nei fatti la prima Spa del paese, forte con il mondo istituzionale e politico.
L’ing. Salvatore Borsellino, che somiglia tanto a Paolo ci rivela che prima di morire, il giudice teneva lontani i figli perché voleva abituarli al distacco per fargli evitare sofferenze. Vive a Milano da una vita, ingegnere informatico, Salvatore ripete che l’emigrazione lo ha salvato dalla polvere esplosiva.
Il fratello del magistrato ucciso nel luglio del ’92 chiede con forza che fine ha fatto l’agenda rossa di Paolo Borsellino. La stessa agenda che, per Salvatore Borsellino, avallerebbe l'ipotesi, ribadita oggi con forza, che la morte di suo fratello Paolo, ucciso nell'attentato di via d'Amelio, "fu una strage di Stato compiuta per mano della mafia". "Perché quel giorno - ha detto Salvatore - un uomo si allontanò con una borsa in cui c'era l'agenda su cui erano annotate le dichiarazioni che i pentiti stavano facendo a Paolo". "Successivamente - ha aggiunto - la borsa fu ritrovata ma l'agenda non c'era più: non è stato un mafioso a rubarla ma un uomo delle istituzioni che aveva collaborato con la criminalità organizzata e temeva si scoprisse la rete di ricatti incrociati tra mafia e politica su cui ancora oggi il tutto si basa".
Salvatore Borsellino si è anche impegnato praticamente da solo nella lotta contro la proposta di grazia a Bruno Contrada, che fu informato addirittura prima di lui dell'attentato al giudice.
Con questo convegno si è voluto pertanto mantenere alta l’attenzione su un fenomeno tutt’altro che sconfitto e che per molti non esiste. La mafia ha semplicemente cambiato strategia e la dimostrazione è data dagli attentati del 1993 che seguirono le grandi stragi.
Infatti nella primavera del 1993, l’Italia torna ad essere teatro di una serie di stragi, alcune fortunatamente sventate, che causeranno una decina di morti e molti feriti. Si comincia con la mancata strage di Via Fauro (attentato a Maurizio Costanzo), si prosegue con Firenze il 27 maggio, si arriverà agli attentati in contemporanea del 27 luglio a Milano e Roma.
Si tratta di episodi che oggi, nonostante la loro gravità e nonostante siano più recenti di quelli della “prima” strategia della tensione, appaiono colpevolmente dimenticati.
E’ stata ricostruita brevemente la dinamica e la storia processuale della strage di Firenze, che ha un antefatto inquietante il 5 novembre 1992, con la collocazione nel giardino dei Boboli (all’interno di Palazzo Pitti) di un proiettile di artiglieria risalente alla seconda guerra mondiale. Un ordigno inoffensivo, ma dal chiaro valore simbolico, fatto ritrovare ai piedi della statua del magistrato Marcus Cautius.
Fu il catanese Santo Mazzei a portare il proiettile nel giardino, rivendicando l’azione (un chiaro avvertimento) con una telefonata all’ANSA. Passano pochi mesi e un Fiat Fiorino trasformato in autobomba (circa 250 kg di miscela esplosiva) deflagra all’01:04 del 27 maggio 1993 in Via dei Georgofili.
Un impatto devastante, che provoca 5 morti, una cinquantina di feriti, molti sfollati dalle abitazioni circostanti (intaccate e rese pericolanti dall’esplosione) e gravi danni ad edifici storico/artistici, fra cui la celebre Galleria degli Uffizi.
Le prime indagini sono efficienti: si scopre la provenienza della vettura (rubata a Firenze pochi giorni prima e trasformata in autobomba a Prato), e si individua in Cosa Nostra regia ed esecuzione della strage.
La mafia ordinò e realizzò la strage, nell’ambito di una strategia che voleva realizzare una pressione sulle Istituzioni, in risposta ad un’offensiva che lo Stato aveva lanciato sul piano giudiziario contro la mafia stessa (la forza intimidatrice contro gli ergastoli, la confisca dei beni e la volontà di ottenere una revisione dei processi).
Nel corso dell’incontro si è parlato del libro di Giuseppe Ayala “Chi ha paura muore ogni giorno. I miei anni con Falcone e Borsellino”, Editrice Mondadori.
Il libro è un percorso nei sentimenti e un approfondimento sulle qualità umane, prima ancora che «professionali», dei due amici del pool antimafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e di tutti i compagni di quella prima, grande e vittoriosa sfida alla mafia come Antonino Caponnetto, Gaetano Costa, Rocco Chinnici, Piero Grasso, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta.
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In sintesi: sono passati quindici anni dalla terribile estate che, con i due attentati di Punta Raisi e di via d'Amelio, segnò forse il momento più drammatico della lotta contro la mafia in Sicilia. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino restano due simboli, non solo dell'antimafia, ma anche di uno Stato italiano che, grazie a loro, seppe ritrovare una serietà e un'onestà senza compromessi. Ma per Giuseppe Ayala, che di entrambi fu grande amico, oltre che collega, i due magistrati siciliani sono anche il ricordo commosso di dieci anni di vita professionale e privata, e un rabbioso e mai sopito rimpianto.
Ayala rappresentò in aula la pubblica accusa nel primo maxi-processo, sostenendo le tesi di Falcone e del pool antimafia di fronte ai boss e ai loro avvocati, interrogando i primi pentiti (tra cui Tommaso Buscetta), ottenendo una strepitosa serie di condanne che fecero epoca. E fu vicino ai due magistrati in prima linea quando, dopo questi primi, grandi successi, la reazione degli ambienti politico-mediatici vicini a Cosa Nostra, la diffidenza del Csm e l'indifferenza di molti iniziarono a danneggiarli, isolarli. Per la prima volta, Ayala racconta la sua verità, non solo su Falcone e Borsellino, che in queste pagine ci vengono restituiti alla loro appassionata e ironica umanità, ma anche su quegli anni, sulle vittorie e i fallimenti della lotta alla mafia, sui ritardi e le complicità dello Stato, sulle colpe e i silenzi di una Sicilia che, forse, non è molto cambiata da allora.
L’evento con ingresso libero si è svolto presso la Sala Conferenze dell’Hotel “Sheraton Nicolaus” – Via Card. A. Ciasca n. 27, con inizio alle ore 18:30.